
Le sabbie mobili
"Sono stata una stupida!".
Quelle parole continuano a rimbombarle nella mente coprendo il battito sordo del cuore che riecheggia
nel torace. Helena si è appena resa conto di essere intrappolata nella melma vischiosa.
Stava osservando incantata il paesaggio e non si era accorta che i suoi piedi stavano affondando nella
sabbia.
Aveva lasciato volutamente il telefono in camera, quella mattina. Lo aveva spento e chiuso nel beauty. E,
mentre lo riponeva, aveva pensato che magari lo avrebbe potuto lasciare spento per tutto il resto del
viaggio.
Capita la situazione in cui si è andata a cacciare, pensa che ora quel cellulare le sarebbe molto utile. Inizia
a respirare a fatica e sente il sudore scorrerle lungo la schiena, imperlarle la fronte e l'attaccatura dei
capelli, sotto la fascia che indossa per coprire la ricrescita.
Più prova a muovere i piedi e più le gambe affondano. Ogni volta che alza un piede, la pressione che
spinge giù il corpo nella sabbia raddoppia. Inoltre, il vuoto creato dal piede che si alza, risucchia ancora
più giù il resto del corpo. L'unico risultato che può raggiungere continuando a muovere le gambe per
spostarsi dal punto in cui si trova è quello di sprofondare ancora di più.
Immersa nel fango fino alle ginocchia, realizza che è prioritario rimanere calma, e ferma.
Il sole è ancora alto e il suo sguardo viene attratto dalle lancette del campanile dell'abbazia che si erge sul
Mont Saint Michel, proprio davanti a lei.
Le torna in mente il cartello all'entrata del sentiero che aveva imboccato qualche minuto prima, quello
che riportava gli orari delle alte maree. 16:30 è l'orario che ricorda, insieme agli avvertimenti e ai divieti
di aggirarsi in quella zona, motivo per cui lì intorno e nei paraggi non si aggira nessuno. Ma in lei, quando
si trova davanti un avvertimento, scatta un senso di sfida che la spinge a misurarsi con la capacità di
gestire e superare il pericolo.
Non sarò risucchiata dalle sabbie mobili, ma se entro due ore non troverò un modo per venire fuori da qui, il mare mi
sommergerà, pensa Helena mentre inspira profondamente.
Le lancette segnano le 14.45. Quel monte, di lì a un paio d'ore, tornerà ad essere un isolotto, sommerso dalla marea che avanzerà veloce come un cavallo al galoppo.
Alla stessa ora, esattamente ventisei anni fa, suo figlio era venuto alla luce. Era un pomeriggio di marzo in cui la pioggia e il sole si alternavano e, dopo nove ore di travaglio, finalmente, Alessio era uscito da lei. E ora si trovava a più di mille chilometri di distanza, a Valencia, dove da sette anni studiava Agraria ed Enologia.
Inizialmente era stata lei a sostenerlo nella scelta di studiare all'estero perché reputava importante il farsi le ossa vivendo fuori di casa. Non voleva che potesse capitare anche a loro quello che era successo ai suoi vicini, il cui figlio a trent'anni viveva ancora con mamma e papà. Quando Helena prendeva l'ascensore con la mamma del ragazzo – lui non lo incontrava mai perché usciva solo la notte per andarsi a divertire con gli amici – ascoltava quello che raccontava la donna con un misto di rabbia e tristezza nei confronti del ragazzo ma anche dei suoi genitori. La donna parlava del figlio con una sorta di ammirazione nei suoi confronti: secondo lei era riuscito a non farsi fagocitare da un sistema che altrimenti lo avrebbe portato a girare a vuoto sulla ruota del criceto.
Eppure, sempre lei, Helena, aveva persuaso suo figlio a non trovarsi un lavoro a Valencia per far sì che si concentrasse meglio nello studio. Col senno del poi però si chiede ora quanto in realtà, quello era stato un modo per avere solide argomentazioni da controbattere a quella vocina interiore che le ripeteva che suo figlio si era fatto grande e che avrebbe presto camminato con le sue gambe. Negli ultimi due anni si era sentita logorata da sentimenti discordanti perché aveva il dubbio che Alessio si fosse adagiato in quella situazione. Le veniva in mente in maniera ossessiva il figlio della vicina. Ogni volta che si avvicinava la data di un esame Alessio trovava sempre mille scuse per rimandarlo all'appello della sessione successiva.
"Devo restare calma, ce la posso fare" si era ripetuta in maniera ossessiva allora, durante il travaglio. Le stesse parole che ora sta ripetendo a se stessa. Riesce a sfilarsi lo zaino per lanciarlo a circa un metro da sé. Ha dosato le forze nel lancio per non creare troppa ripercussione nelle gambe. Sprofonda ancora di un paio di centimetri ma la cosa non la preoccupa più di tanto perché ricorda di aver studiato che più su dei fianchi la miscela di sabbia e acqua non può salire e che solo nei film si viene inghiottiti dalle sabbie mobili. Di fatto, per motivi legati alle differenze di densità, si affonda solo parzialmente come accade a una paperella di gomma in una vasca. Il pensiero della paperella le fa tornare alla mente l'ora del bagnetto e quando Alessio passava dagli insopportabili capricci perché non voleva lavarsi, ai versi e alle risate di divertimento mentre giocava con l'acqua. Ed era in quei momenti che la gran fatica che Helena provava veniva alleviata dalla tenerezza e dalla gioia che insieme condividevano.
Era per quei momenti che, quando era stremata dalla fatica (c'era stato un periodo in cui era stato molto frequente) si trovava a stringere i denti e a tenere duro, pensando di essere una sorta di soldato Jane alle prese con un addestramento che l'avrebbe resa più forte. Si era già confrontata con la pratica
dell'addestramento da adolescente, quando si allenava in piscina sviluppando così il muscolo della volontà
che le era poi tornato utile in diverse occasioni.
Era proprio questo che temeva mancasse a suo figlio, la forza di volontà. Per certi versi, pensava che la
colpa di questa mancanza fosse la sua, che lo aveva sempre seguito forse da troppo vicino. Ripensandoci
ora, si rende conto che forse a volte aveva addirittura anticipato bisogni o desideri, privando Alessio della
possibilità di ingegnarsi e darsi da fare per raggiungere quanto desiderato.
Pur avendo ogni tanto qualche sprazzo di dubbio su quanto stesse facendo e se fosse un bene per suo figlio, essere presente in maniera evidente e totale, le sembrava potesse compensare la frustrazione per aver dovuto lasciare il lavoro al Cern. Ma sua madre era morta, il padre era emotivamente e fisicamente fuori gioco e non in grado di occuparsi del bambino nelle ore in cui Helena sarebbe stata al lavoro. Suo marito lavorava come operaio in una fabbrica che produceva materiali edili e, anche se la cosa più logica sarebbe stata che lasciasse lui il lavoro, visto che guadagnava la metà dello stipendio di Helena, quella prospettiva non era neanche ipotizzabile. Helena si era sentita braccata, senza soluzioni alternative a quella di lasciare il lavoro e, almeno per i primi tre anni, dedicarsi a tempo pieno a suo figlio. Nonostante avesse ripreso il lavoro, quando Alessio aveva cominciato le elementari, la situazione era comunque cambiata perché non le fu possibile essere riammessa nel ruolo di ricercatrice; era stata inserita negli uffici amministrativi come impiegata. Le altre mamme poi vivevano in maniera diversa: erano ancora tutte molto "figlie", per cui per la maggior parte del tempo, quando non stavano a scuola, i bambini stavano con nonni sempre disponibili e molto presenti che andavano a prenderli a scuola, cucinavano per tutta la famiglia e si rendevano disponibili spesso anche la notte in maniera tale che la coppia potesse avere i propri spazi. Inoltre, le loro giornate trascorrevano tra parrucchieri, estetiste, colazioni e brunch. Una volta, dopo aver accompagnato Alessio a scuola, prima di recarsi al lavoro, Helena era andata a prendere un caffè con loro, ma si era annoiata profondamente tra gossip e discorsi su capelli, unghie, diete e palestre e maldicenze su persone assenti e con tutte le cose che aveva da fare le sembrava di star perdendo tempo.
Le nuvole, che finora avevano coperto il sole, si stanno ora diradando. C'era ancora del tempo tra il momento presente e quello in cui la marea avrebbe ricoperto la superficie circostante l'abbazia di Saint Michel.
"Che assurdità..." pensa Helena "in quegli anni me lo sognavo di potermi fermare, di potermi riposare, mi ripetevo Zitta e nuota, zitta e nuota imitando la pesciolina blu e gialla di quel film che avevo visto al cinema quando Alessio era piccolino" sorride pensando a quella pesciolina con un disturbo dell'attenzione a breve termine.
La sabbia melmosa la ricopre ora fin sopra i fianchi. In teoria più giù di così non sarebbe andata.
"Ma certo!" esclama a voce alta. "La cosa più semplice che posso fare è sdraiarmi sulla schiena e aprire
le braccia: così facendo aumenterò la superficie del corpo, diminuisco la pressione sulla sabbia e riuscirò
a galleggiare. In questo modo le gambe usciranno naturalmente dalla morsa del fango. E sì, dai che ce la
fai anche stavolta! Ora si tratta di rilassarsi e lasciarsi andare... e anche di lasciar andare..."
E mentre prova a rilassarsi le torna in mente l'ultima volta che è andata a trovare Alessio. Avevano
discusso perché lui, senza averle prima chiesto un parere, si era trovato un lavoro come cameriere nella
pizzeria sotto la casa dove voleva trasferirsi per dividere l'affitto con altri due studenti lavoratori. Lei
aveva reagito dicendo che così avrebbe avuto ancora meno tempo da dedicare allo studio e che sarebbe
stato ancora più distratto. Alessio aveva ribadito che sentiva il desiderio di sperimentare e potersi ingegnare in
maniera autonoma e vivere senza il fiato sempre addosso di mammina.
Al ricordo di quella giornata, con ancora impressa nella mente l'espressione accorata del viso di Alessio che, nonostante e malgrado lei, con coraggio, stava prendendo in mano le redini della sua vita, senza chiederle il permesso, il nodo che da tanti anni continuava ad aggrovigliarsi al centro del petto, improvvisamente si scioglie. E mentre la marea, avanza veloce, Helena, lasciandosi andare sempre di più per galleggiare e riuscire, appena possibile, a nuotare per tirarsi fuori da lì, si rende conto che già partire per quel viaggio, da sola, per Moint Sain Michel, invece che andare a Valencia da Alessio, è un po' come aver scelto la direzione.
Ed ecco arrivare le onde: eccone una, poi un'altra e un'altra ancora. Come le doglie, dapprima lente e distanti, poi sempre più veloci e ravvicinate. Non è facile fare la cosa giusta in quel momento, le viene istintivo muoversi. Ma deve aspettare ancora, deve imparare a sostare. Dopo qualche minuto l'acqua è diventata sufficientemente alta per potersi muovere nuotando. Helena con movimenti lenti inclina delicatamente il corpo verso il lato sinistro e, spostando il peso sulla spalla e sul fianco, ruota il bacino e le gambe in modo da passare dalla posizione supina a quella prona. Inizia a muovere le gambe a rana, tiene le braccia quasi ferme e fa solo dei piccoli movimenti con le mani per mantenere la direzione. Si avvicina allo zaino, lo recupera e lo utilizza come appoggio per le braccia e nuota, muovendo solo le gambe alternativamente a stile e a rana, in direzione dell'abbazia.